C’è chi ne rispetta la figura professionale e li stima, mentre altri partono prevenuti e finiscono per scaricargli addosso un po’ di rabbia repressa. La loro immagine non finirà sui poster nelle camerette dei bambini, ma sul rettangolo verde sono da sempre una presenza costante senza la quale il calcio si fermerebbe. Giuseppe Bertelli, classe 1960, ci racconta cosa significhi essere arbitro, il più difficile e ingrato (ma fondamentale) ruolo nel mondo del calcio e dello sport in generale.
Come si diventa arbitro? È qualcosa di innato o a cui si pensa strada facendo?
“È una figura che mi ha sempre attratto e a cui ho portato grande rispetto da calciatore, infatti in carriera non sono mai stato espulso. L’ho sempre ammirato, anche quando mi fischiava contro!”.
Quindi sul campo da calcio sei stato innanzitutto un calciatore?
“Sì, fin da giovane ho giocato da attaccante, sono diventato arbitro a quasi cinquant’anni, molto tempo dopo aver smesso di giocare. Ero già fuori età per la FIGC e ho arbitrato subito nel CSI”.
Iniziamo allora dai tuoi trascorsi, partendo dalle giovanili.
“Ho fatto la trafila nel Botticino, avevo anche superato un provino al Brescia salvo rinunciare per motivi familiari. Con la maggiore età ho ripreso a Virle in Seconda Categoria, poi sono passato agli Amatori a Capriano del Colle, quindi ancora FIGC a Castelcovati e Coccaglio e varie tappe amatoriali fino ad un’esperienza da allenatore a Castenedolo”.
E quand’è che hai deciso di impugnare il fischietto?
“È successo frequentando l’oratorio di Montirone nel 2007. La gente mi ha convinto a provare e da allora non ho più smesso. Ho arbitrato fin da subito gli adulti anche se la mia prima partita da arbitro è stata a Folzano nel calcio a 5. Mi è piaciuto fin dall’inizio, forse avendo giocato a lungo era come se prevedessi prima come sarebbe andata l’azione”.
Descriviti come direttore di gara.
“Non mi piace chi cerca di imporsi in maniera autoritaria. Il regolamento è composto da 17 regole ma credo che la più importante sia la 18esima: il buon senso. Tutto sta nel riuscire a fare accettare le proprie decisioni, che possono anche essere sbagliate ma conta solo quello che noi in quel momento vediamo. Poi qualche elemento va gestito, ma dopo anni di esperienza bastano pochi minuti per inquadrarlo”.
Un episodio particolare della tua carriera che vorresti cancellare?
“Fortunatamente quasi nessuno. Direi solo una volta ad un torneo estivo, quando un giocatore contestò una decisione e mi spinse a terra. Ma poi ho solo ricordi positivi. Spesso ho ricevuto complimenti da squadre che quel giorno avevano perso, quella credo sia la soddisfazione più grande”.
Qual è la tua opinione sul VAR?
“Che sminuisce il nostro ruolo e al tempo stesso ci deresponsabilizza. Sarebbe meglio che la gente accettasse semplicemente le nostre scelte, giuste o sbagliate che siano. A volte poi se ne abusa, andrebbe quanto meno limitato. In alcuni paesi hanno già fatto un passo indietro e l’hanno eliminato”.
C’è stato un arbitro cui ti sei ispirato?
“Come tanti della mia generazione, il mio punto di riferimento era Pierluigi Collina. Tutti accettavano le sue decisioni e se qualcuno avesse accennato ad una protesta, bastava un suo sguardo per fargli cambiare idea”.